Cibo e bevande

“Tunnina”, come la chiamano i trapanesi, il filetto del tonno. Una leccornia per palati raffinati

Non mancavano le tonnare in Sicilia; il tonno era abbondante e di grande pregio nei mari tutt’intorno all’isola. L’economia dell’intera regione ne era avvantaggiata. Bisognava industriarsi per non sprecare tutto quel ben di Dio che il mare metteva a disposizione quando ancora non c’erano restrizioni nel pescato, quando la mattanza dava di che vivere a tante famiglie, quando industrie conserviere nascevano, numerose, a lato di questa provvidenziale risorsa, quando non si ventilavano rischi di depauperamento della fauna ittica.

Tunnina salata – Foto di Miguel Perfectti

Prima di ricorrere alla conservazione del tonno sott’olio, i cui primi stabilimenti risalgono al 1868, tutte le parti del tonno pescato si conservavano esclusivamente in salamoia, perchè la salatura era, per il pescato, il metodo di conservazione più diffuso. A lato delle tonnare il locale più importante era il “magazzino del sale”. E le saline di Trapani ne erano grandi fornitori. E Favignana si sa, fino a dieci anni fa, era la regina delle tonnare del Mediterraneo.

I segni di questo mondo sono visibili nelle incisioni sulle pietre di Trapani, dalla via del Salato al porto peschereccio. Qui c’è il “Quartiere delle “Baracche” dove abitavano i pescatori che lavoravano nel porto peschereccio; le baracche erano, probabilmente, gli stabilimenti per la salagione del pesce; lì era facile vedere grappoli di pesce appesi sui muri, messi ad essiccare, nelle terrazze vicino al mare.

A San Vito Lo Capo troviamo, scolpiti sulla pietra, tracce di un antico stabilimento preposto alla salatura. Ci sono frammenti di una macina in pietra lavica che, probabilmente, veniva adibita alla triturazione del sale. Ci sono, ancora, pezzi di anfore dove presumibilmente veniva stivato il pesce salato. Elementi che daterebbero l’impianto agli inizi del III a.C.

A Trapani con una sola parola, salatume, si indica un mondo di parti di pescato conservato sotto sale: tonno, interiora di tonno, ma anche sarde salate, sgombri all’olio, pesci secchi ecc. La “tunnina salata”, conosciuta in commercio come bresaola di tonno, si ottiene dal filetto magro di tonno. Subisce una specifica preparazione. Viene posta in salamoia, da esperti salatori, in tini, per circa quaranta giorni. Dopo di che viene stesa a scolare su particolari tavolate, fatte di canne intrecciate, per poi essere stivata in botti, cosparsa di sale a strati alterni. Chiusa e stretta nel suo contenitore con il giusto cerchio, dal maestro bottaio, era periodicamente integrata di sale.

La tunnina ha un sapore forte, è molto salata; va tagliata a fette molto sottili e condita come carpaccio, con olio extravergine d’oliva e qualche goccia di limone; viene servita come antipasto o lavorata per realizzare fantasiosi piatti gourmet. L’affettato più antico del mondo, quest’unico prelibato salume ittico, è particolarmente diffuso in Sicilia, Sardegna, Puglia e Liguria. Molto diffusa nelle tonnare di Milazzo, era un alimento presente sulle tavole dei milazzesi fino agli anni settanta e per l’abbondante produzione, veniva venduta anche al di fuori della Sicilia.

La “tunnina salata” è ricca di proteine con un basso apporto calorico. La bresaola di tonno, così chiamata, ha pochissimi grassi, contiene selenio, potassio e fosforo, oltre a Omega 3 e 6. Essendo inoltre priva di glutine può integrare con successo la dieta alimentare dei celiaci. Si presenta con un colore bruno, marroncino, dal profumo tipico del pesce salato e ha un gusto forte, tendente al piccante. La si trova in commercio al naturale o speziata al pepe, nota come mosciame di tonno ma per noi rimane sempre “tunnina salata”.

Elementi imprescindibili tra loro, mare, sale e tonno, la sintesi perfetta per lo sviluppo delle città che si affacciavano sul mare. La necessità, le condizioni economiche, le poche conoscenze e gli strumenti di conservazione di una volta coniugati con l’innata creatività, hanno fatto la storia del tonno e dei suoi derivati. Una storia antica che si affianca ingiustamente all’attribuzione di cucina povera, là dove le esigenze di contare sul poco a disposizione, davano vita a piatti eccezionali, ricchi, genuini e inimitabili.

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