Archeologia

Il tesoro di Cala Minnola a Levanzo: il relitto di una nave oneraria romana carico di anfore vinarie

di Sergio Pace

Solitaria, aspra, colorata, unica. Cosi si presenta l’isola di Levanzo, appartenente all’arcipelago delle Isole Egadi. Mostrando il suo ammaliante fascino ai nostri occhi . E’ così Levanzo. Cattura le nostre menti e riempie di vitalità il nostro cuore. L’antica Phorbantya per i greci (forse per l’abbondante presenza di vegetazione sull’isola) è un autentico scrigno di tesori paesaggistici, culturali, storici e archeologici. Le sfumature cristalline delle sue acque, il bianco e il blu delle casette del paese, i sentieri naturalistici che la percorrono, i tesori archeologici nascosti.

Ecco, proprio su quest’ultimo punto rivolgeremo la nostra attenzione. Perché nei pressi di Cala Minnola, sul versante orientale dell’isola, si trova, ad una profondità che oscilla tra i 27 e i 30 metri, un patrimonio archeologico inestimabile: il relitto tardo repubblicano di Cala Minnola. La zona in questione, peraltro, si trova a poche decine di metri da Punta Altarella, dove possiamo trovare tracce di uno stabilimento per la lavorazione del garum di epoca ellenistico-romana.

Levanzo, Cala Minnola – Foto di AlexNez – Shutterstock

La presenza del relitto a Cala Minnola era già nota da parecchio tempo ed è stata anche soggetta a diversi saccheggi. Ma nella primavera – estate del 2005 si è messa in moto tutta la macchina organizzativa per procedere al recupero di quanto restava del relitto. Sono stati recuperati frammenti di vasellame a vernice nera databile alla metà del I secolo a.C. e resti del carico di anfore vinarie del tipo Dressel 1B (una cinquantina circa).

Per quanto concerne lo scafo, è stato possibile rilevarne la presenza tramite pochi frammenti lignei. Le anfore recuperate, rivestite internamente di pece, trasportavano vino; non è improbabile avallare l’ipotesi secondo la quale le stesse anfore cariche di vino giunte sull’isola potessero poi essere riutilizzate per contenere il garum (quella tipica salsa di pesce di cui erano golosi i romani, sempre presente nei loro banchetti), prodotto nello stabilimento di Punta Altarella.

Gli scavi subacquei hanno permesso, altresì, di identificare un’anfora recante sulla spalla un bollo in cui si legge il termine PAPIA. Non ne abbiamo la certezza ma potrebbe trattarsi del nome di un’importante famiglia romana di produttori agricoli della Campania settentrionale, che trasportava vino  nel Mediterraneo. Più nel dettaglio, il termine farebbe riferimento ad un’esponente femminile di tale famiglia, ovvero Papia Tertia, vissuta proprio intorno alla metà del I secolo a.C.

Potrebbe sorgere spontanea una domanda: “Perché questi commercio di vino dalla Campania verso il sud dove la produzione vitivinicola era già affermata e di qualità?”. E in particolare a Levanzo, proprio in quel periodo, si era costruito un insediamento votato alle attività agricole. Sembra strano, è vero, ma nell’antichità romana questo commercio di vino verso terre in cui la produzione vinicola era presente, è abbastanza frequente. Perché vi domanderete. Perché il tutto rispondeva a logiche prettamente economiche basate sul pregio e la qualità dei prodotti e alle mode del tempo, e quindi alle esigenti richieste di determinati consumatori.

Probabilmente la nave era diretta verso il Nord Africa. Era partita dalla zona di Fondi-Sperlonga e mancava poco per l’ultimo tratto di navigazione. Si era scelto di passare tra la costa di Drepanum e l’antica Phorbantya. La sua corsa però si fermò proprio qui, intercettando la costa rocciosa dell’isola e trovando il colmo della scarpata ( una piccola secca) a diverse centinaia di metri dalla costa. Lo scafo, probabilmente, non avrebbe nemmeno raggiunto il fondo sabbioso, adagiandosi sulle rocce del pendio. Purtroppo non abbiamo avuto modo di trovare nulla dello scafo, dal momento che, rimanendo sulla roccia, è stato sottoposto all’azione degli agenti biodeteriogeni. Le anfore sono rotolate in fondo alla scarpata e, essendo state ricoperte dalla sabbia, si è avuto modo di ritrovarle. E sono rimaste proprio lì fino ad oggi, nella loro originale giacitura.

Nel 2006, al fine di permettere al pubblico di conoscerne e ammirarne le caratteristiche, è stato attivato un sistema di telecontrollo basato su 4 telecamere posizionate intorno alle anfore. Un cavo poi permette la trasmissione delle immagini dei fondali con i resti del carico di anfore a terra e da qui, via etere, a Favignana. Qui le immagini possono essere visibili in diretta presso il palazzo comunale. L’ennesimo ritrovamento archeologico che conferma la straordinaria ricchezza dei nostri mari e l’ inestimabile patrimonio storico e culturale del territorio trapanese.

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